Capitolo I°                   capitolo II°                     Back    

 Passiamo ora alla successiva fase della ricostruzione delle originali credenze religiose dell’uomo. In questo secondo intento potremo ricorrere a diversi ed importanti dati  etnologici e paleo etnologici. Da questi contributi possiamo derivare due significative considerazioni:

      1)      Le più antiche tracce relative a concezioni che esulino dalla sfera naturale concepite dall’uomo sembrano essere relative esclusivamente ad una possibile sopravvivenza oltre la morte. Si ritiene allora che questo aspetto abbia goduto di una precedenza ed urgenza psicologiche assolute rispetto ogni altra motivazione di natura teologica.  

2)      Le più primitive, mitiche entità sovrumane concepite dall’uomo nella sfera del sacro, ed in prospettiva le prime divinità, gli Esseri Supremi, sono costantemente immaginate dai primitivi in miti in cui la divinità esprime solo ed essenzialmente una funzione creativa.
Tali divinità non manifestano alcuna autorità e funzione etica nei confronti dell’uomo.

La prima osservazione conferma quanto già detto in precedenza delle principali motivazioni della credenza nella vita d’oltretomba. Passiamo allora a valutare la seconda osservazione, visto che nelle attuali religioni il ruolo etico della divinità in relazione all’esistenza di ogni essere umano, e in funzione del suo futuro d’oltretomba, è decisamente rilevante. Ora, i dati a nostra disposizione ci dicono che le primitive divinità non manifestano alcuna funzione etica. Questo è un fatto sicuramente sorprendente per molti di noi! Un primo elemento rivelatore di questa particolare forma di concezione della divinità è che tali enti sovrannaturali erano collocati in miti cosmologici relativi solamente all’origine della realtà.  
       
È inevitabile, sulle prime, che il paragone tra simili credenze e le religioni odierne non faccia che gettare una luce d’incompletezza su tali credenze. Ma questa impressione è fortemente preconcetta e fuorviante. In questi confronti si concentra eccessivamente l’attenzione su contenuti ulteriori dei sistemi religiosi più recenti, prendendo implicitamente in considerazione le religioni attuali quali modelli o prototipi canonici e completi di credenza religiosa. Un atteggiamento questo smaccatamente etnocentrico quanto infondato.
   
     Eppure la presa emotiva delle religioni si fonda costantemente, dati alla mano, su un unico aspetto essenziale, universale e basilare quanto primitivo: il nucleo profondo del meccanismo emozionale che da sempre attira l’uomo al sacro, che dà senso a tutte le religioni, è nascosto infatti ad un livello ben più atavico, circoscritto e fondamentale dello stesso concetto di divinità, nei sotterranei di ogni ipotesi teologica. Esso emerge in tutto il suo significato allorquando consideriamo come l’uomo concentra la sua attenzione solo ed esclusivamente sul suo destino e, in particolare, proprio sulla speranza di una sopravvivenza individuale oltre la morte! Nessuna religione saprebbe esprimere il suo valore psico sociale senza questo contenuto, e perderebbe la sua stessa ragion d’essere. Tutte le religioni devono la loro presa sull’uomo esclusivamente per il particolare rapporto che affermano tra uomo e divinità. Il nocciolo delle religioni non è infatti il concetto di divinità in sé, bensì il suo ruolo in relazione al destino dell’uomo. La storia delle religioni è la storia di come l’uomo ha vissuto la sua propria collocazione sotto il profilo individuale e sociale rispetto il sacro, nei confronti delle eventuali divinità. Quale Dio avrebbe potuto altrimenti esigere un culto o la pur più blanda pratica ascetica? Non avremmo potuto condividere e praticare alcun culto dei morti, né ammirare le piramidi egizie, né comprendere un atto di contrizione o un sacrificio espiatorio. Chi accetterebbe le prove della palestra della salvezza se la propria esistenza mondana non fosse posta in una qualche relazione con il destino d’oltretomba? Tutte le religioni si muovono intorno e al di sopra a questo concetto di base, fondamento inalienabile ed originario della loro stessa esistenza. Questo e solo questo fondamento giustifica l’impegno religioso, l’intenso rapporto dell’Io con il sacro, la divinità. E tale nucleo sembra essere l’originario, unico contenuto delle prime credenze a cui l’uomo approdò nella sua storia, ed a cui solo successivamente si aggiungeranno ulteriori aspetti. Alla luce di quanto sopra proviamo a tracciare un primo quadro della situazione che sta emergendo. Indicheremo innanzitutto con «religione minimale a-teologica», o semplicemente «religione minimale», la credenza di una natura spirituale dell’individuo e della possibilità di una esistenza nell’oltretomba che prescinda dalla nozione di divinità.
   
      Queste semplici credenze costituirebbero le più elementari, arcaiche ipotesi religiose concepite dall’uomo. Non importa se in esse non si contempla l’esistenza alcuna divinità, se non si riconosce alcuna forma di dialogo od intercessione verso la stessa o nei confronti dei defunti, se siano connesse o meno a concezioni e miti cosmologico teologici. La negazione della dissoluzione dell’individualità che comunque si afferma risulta potente ed efficace quanto basta per risolvere pienamente le tematiche che scaturiscono dalla presa di coscienza della morte. Sotto questa prospettiva anzi nulla è stato aggiunto dalle sovrastrutture successivamente edificate al di sopra di questa base concettuale. Piuttosto, i risultati di molte rielaborazioni hanno rappresentato una esplicita involuzione delle potenzialità di tale risposta!  
         Le religioni minimali rappresenterebbero dunque gli albori dell’esperienza religiosa, il nucleo originario di tutti i sistemi religiosi della storia successiva. Circa 150.000 anni or sono si stava concludendo la fase a-religiosa dell’umanità: in quelle popolazioni di Homo s. sapiens iniziarono a manifestarsi profondi cambiamenti culturali in conseguenza della diffusione delle religioni minimali. Si verificò una poderosa tra­sformazione psicologica; l’orrore che la coscienza della morte aveva riversato in questi lontani predecessori poté stemperarsi con il diffondersi e radicarsi di tali credenze. L’affermazione sociale delle religioni minimali pose allora le basi per l’emersione di una nuova realtà socio culturale: i loro principi penetrarono progressivamente in tutti gli ambiti della vita sociale, fino ad allora a-religiosa, generando nuove categorie di pensiero, esigenze e pratiche, quali i rituali funebri di cui abbiamo fatto menzione,. Una vera e propria invenzione.
Ma ora dobbiamo affrontare un aspetto decisivo, sinora assolutamente ignorato da tutti gli antropologi e filosofi che si sono interessati dell’argomento. Le prime esperienze religiose videro la luce in contesti socio culturale in cui già esisteva un’etica sociale ed individuale la quale era dunque assolutamente indipendente da quelle ipotesi. Una prima evidenza è che queste ultime nate, e questo è importantissimo, dovettero necessariamente adeguarsi ed adattarsi a quella tradizione etico sociale.  Domanda allora: ma quali erano i valori etici in quelle società?  
         Siamo in grado di definire con rigore gli aspetti essenziali di questo contesto: era una realtà profondamente diversa da quella propria delle culture moderne. Ricorriamo ad ulteriori dati etnologici e paleo etnologici a questo punto. Elementi importanti per dirigere la nostra ricostruzione si fondano principalmente sulle analogie che accomunerebbero le attuali società primitive di cacciatori raccoglitori di cibo alle vere comunità preistoriche. I moderni studi, a dispetto dei preconcetti che per secoli hanno presentato le popolazioni indigene delle varie parti del mondo come primitivi ed inferiori fossili sociali al cospetto della nostra progredita civiltà, parlano di un profilo globale di queste popolazioni estremamente valido, umanamente dignitoso e culturalmente rilevante. Nel ricostruire i tratti salienti di un cacciatore-raccoglitore preistorico ad esempio, dovremmo immaginarci un individuo capace di una considerevole cultura naturalistica, in grado di distinguere ad occhio tracce di decine di animali, di conoscere le loro abitudini, di attuare le opportune tecniche di caccia. Uomini che sapevano costruire archi in grado di passare da parte a parte un cervo adulto ad 80 metri di distanza, da quale larva estrarre il veleno per le frecce, cacciatori capaci di procurare in breve tempo alla loro famiglia cibo sufficiente per un’intera settimana. Donne capaci di partorire da sole, di proteggere i loro piccoli dall’attacco di predatori e di curarli con medicinali ricavati dall’ambiente naturale.
Individui in grado poi di assimilare, ampliare e trasmettere di generazione in generazione, e senza l’ausilio di una qualche forma di scrittura, la loro cultura, comprese concezioni cosmologiche ed eventuali aspetti filosofici. Individui cooperativi, restii ad un accumulo ossessivo di beni e propensi a vivere nel rispetto dei ritmi della natura. A livello psicologico le sorprese sono maggiori: uomini non irretiti da soverchie proibizioni etico sociali, scevri da molte delle attuali nevrosi del mondo contemporaneo, poco affetti da quell’autoritarismo, individualismo, feroce competizione sociale, etica meritocratica e la frenetica bramosia di successo che vediamo troppo spesso affermati nelle nostra società progredite.
   
      L’antropologo Robin Fox così descrive i tratti salienti della personalità di un individuo maschio di una certa leadership delle popolazioni primitive: «Accorto, astuto, aperto alla cooperazione, attraente per le femmine, buono con i bambini, rilassato, resistente, eloquente, abile, intelligente ed esperto nell’autodifesa e nella caccia». Nel nostro immaginario collettivo dovremmo dunque attribuire a tali individui un canone ben più dignitoso: non più orde primordiali di bruti ominidi, ma gruppi efficienti di esseri umani dallo sguardo affatto confuso ed animalesco. Non per nulla le attuali società di cacciatori raccoglitori di cibo, per il livello di benessere sociale e materiale che le caratterizza, in relazione agli sforzi ed alle risorse profusi, sono state indicate come «... la società opulenta originaria»!
   
     Se tale è quindi la tipica personalità di base delle attuali società di cacciatori raccoglitori di cibo dovremo realisticamente attenderci di trasferire questi caratteri sociali, non i nostri, alle vere popolazioni paleolitiche. Non si vuol però romanticamente concludere che costoro fossero dei fortunati e felici abitanti di un Eden preistorico. Tale tipo di vita presenta situazioni per noi insostenibili; ma non necessariamente dobbiamo necessariamente immaginarla come stentata ed inumana, vissuta con modalità indegne dell’essere umano. Ma andiamo avanti.
   
     Queste società presentano inoltre – e questo è estremamente indicativo – un’organizzazione sociale egalitaria, in cui il potere personale si può sviluppare limitatamente ed in cui l’individuo, pur vincolato da precise norme, gode di una notevolissima libertà. Lo spessore sociale è infatti talmente esiguo da consentire all’individuo di affermarsi autonomamente, senza subire eccessive costrizioni nell’esprimere pienamente la propria personalità. Tali culture, dove sono assenti i meccanismi di costrizione sociale ed etica così comuni nelle nostre società e sono parimenti assenti strutture sociali in grado di realizzarli, esprimono dunque una netta negazione di principi autoritaristici. Si assiste così, come scrive Erich Fromm, all’affermazione di un’autorità razionale: «Questa assenza di gerarchia e di capi è tanto più notevole se si pensa al cliché ampiamente accettato che tali istituzioni di controllo, quali si ritrovano virtualmente in tutte le società civilizzate, sarebbero fondate su un’eredità genetica dal regno animale.
   
     Abbiamo visto che, per quanto deboli, le relazioni di dominanza esistono fra gli scimpanzé.
   
     I rapporti sociali esistenti fra i popoli primitivi dimostrano chiaramente che l’uomo non è equipaggiato geneticamente per questa psicologia di dominanza sottomissione.
   
     L’analisi della società storica, in cui per cinque o seimila anni la minoranza dominante sfrutta la maggioranza, dimostra molto chiaramente che la psicologia di dominanza sottomissione è un adattamento all’ordine sociale, e non la causa di quest’ultimo.
   
     Per i difensori dell’ordine sociale basato sul controllo di un’élite, fa certo molto comodo credere che la struttura sociale sia il risultato di un’esigenza innata dell’uomo, e quindi naturale e inevitabile. Ma la società egalitaria dei primitivi dimostra proprio il contrario». In queste culture è dunque favorita l’emersione di una personalità di base in cui si esprime un forte senso d’indipendenza dell’individuo parallelamente ad un atteggiamento sociale di collaborazione-rispetto dell’altro. L’autorità è riconosciuta esclusivamente sulla base di comprovate competenza e abilità; più che all’affermazione di una filosofia repressiva, queste culture sembrano portate ad una generale e notevole permissività. Ciò però non deve far pensare ad una caotica anarchia, visto che le norme sociali sono sempre presenti e puntualmente vengono rispettate, ma di valori metafisici e pratici di fondo orientati dunque verso un profondo senso di indipendenza etica parallelamente ad un forte senso di comunità. Gli individui sono portati alla cooperazione ed hanno una visione positiva, realistica e dignitosa di se stessi e della natura, qualità rispecchiate in ogni manifestazione culturale, compresi ovviamente i modelli religiosi.
   
     Ebbene, la formulazione di una qualsiasi ipotesi religiosa comporta la necessità di ipotizzare un continuum che travalichi l’esperienza mondana; ed immaginare una continuità post mortem necessita che venga definita una dimensione dove dovranno dirigersi anime o spiriti. Nella misura in cui queste ipotesi hanno sempre e comunque costituito uno specchio metafisico della realtà sociale, esse non potranno che esprimere quell’uguaglianza e dignità che regnava nella comunità dei vivi. Ed ecco all’aspetto fondamentale, che rappresenta la chiave di volta di tutta la nostra ricerca.
   
     Tutto il materiale sinora analizzato ci porta alla conclusione che in tali culture, alla stessa maniera in cui non esiste alcun principio autoritaristico in vita, verosimilmente non ne esisterà oltre la morte, nell’oltretomba. Questo è legittimato sia dall’identità di fondo osservabile tra le popolazioni delle società illetterate, o primitive, attuali e l’uomo delle civiltà industrializzate, che da estese evidenze paleo antropologiche ed antropologiche.
        Esisterebbe dunque una irriducibile discrepanza nelle qualità riconosciute alle divinità creatrici dei popoli primitivi rispetto a quelle delle divinità delle successive religioni storiche; differenze tali da rendere praticamente abissale la distanza tra concezioni così diverse di divinità.  L’aspetto fondamentale che dobbiamo mettere in risalto è che gli esseri supremi originari non mostrano quell’onniscienza, onnipotenza ed autorità morale nei confronti dell’uomo costantemente attribuite alle credenze religiose successive. Diversamente dalle divinità successive, che mostrano onniscienza ed esprimono un’azione morale, gli esseri supremi primitivi, puramente creativi, esauriscono la loro ragion d’essere nel solo ruolo creativo dell’universo.
   
     Tali divinità sembrano derivare da una tensione percepita dell’imponenza di eventi naturali quali l’alternarsi del giorno e della notte, il prodigioso mutare delle stagioni, la nascita e lo sviluppo di un essere vivente. Ma la loro esistenza ed il loro ruolo sono rivolti a dare risposte riferite esclusivamente all’origine dell’ordine delle cose, non al destino dell’uomo oltre la morte.
   
     È chiaro che in siffatte concezioni non entra per niente il problema del futuro dell’individuo, del suo destino d’oltretomba; non si ha alcun motivo allora di rivolgersi all’essere supremo, di interessarsi dei suoi divini umori in funzione del destino dell’uomo. In proposito i dati etnologici ci mostrano, molto opportunamente, che in tali credenze le divinità mostrano una fondamentale indifferenza per l’operato ed il destino dell’essere umano. Dal alcun profilo di tali divinità creatrici è osservabile questa connessione, né – di conseguenza – è possibile imputare alle stesse alcuna censura morale. È da osservare come l’idea che le azioni umane possano essere sottoposte ad una censura etica ed una punizione da parte di una qualsiasi figura sovrana sia completamente al di fuori dei valori etici e sociali di fondo delle culture primitive. In tali società è infatti completamente assente qualsiasi forma di concrezione di potere che possa investire l’individuo in un rapporto di dominanza-sottomissione. Non esiste nessun ruolo mondano che possa fungere da modello e trasposizione terrena di una divinità sovrana e padrona del destino altrui. Nelle società primitive l’organizzazione sociale verte su una spiccata cooperazione, su una profonda uguaglianza sociale e sul netto rifiuto di qualsiasi spinta autoritaristica. Esiste quindi una radicale differenza – sinora non valutata affatto – tra il concetto di autorità a cui siamo abituati nella nostra cultura e quello delle società primitive. L’etica primitiva non è quell’etica gerarchica, imperativa a cui siamo stati assuefatti e che procede da un’autorità personale, ma un’etica democratica, egalitaria, comunitaria, razionale, che sorge dalla base, dunque dall’individuo. In più mentre nelle nostre società l’autorità è particolarmente debitrice della frazione emotiva ascrivibile a processi di proiezione collettiva, specialmente in campo sociale, nelle culture primitive essa deriva esclusivamente da una valutazione diretta e pragmatica, concreta, della competenza e dell’abilità.
   
     Ma se tale è l’autorità riconosciuta in queste società è indubbio che solo questo tipo di autorità potrà al più essere attribuito, pur se sublimato, ad un’eventuale divinità suprema; e questa risulta essere infatti la caratteristica valenza delle divinità creatrici che sostanzia la loro diversità nei confronti di divinità onniscienti ed onniveggenti. Ciò dimostrano le indagini etnologiche.
   
     Ma queste divinità onniscienti ed onniveggenti esistono. Come si sarebbero originate?
   
     Sembrerebbe dunque, sulle prime, che la ricostruzione dell’evoluzione delle credenze religiose ci porti necessariamente alla conclusione di veder sorgere inavvertitamente da tali credenze in divinità creatrici la venerazione di divinità onniveggenti e morali tramite una lenta, quasi inevitabile ed ovvia derivazione teologica: ma questa non è la verità.
   
     Basta osservare quanto diversi siano i valori etici, le istanze religiose e tutte le esperienze ulteriori, culturali, sociali ed affettive, che i fondamenti cosmologici da cui in realtà derivano queste diverse concezioni, per comprendere come sia impossibile postulare tale ovvia transizione. Un simile cambiamento coinvolge profondamente tutta la sfera etica ed etologica della società, sino agli aspetti più reconditi del tessuto socio economico, culturale ed emozionale e ciò implica una metamorfosi altrettanto decisiva della relativa personalità di base. Una trasformazione troppo estesa e profonda per realizzarsi in modo impercettibile, ancor più quale inevitabile, indolore evoluzione dalla situazione precedente.
   
     A ciò infatti si opporrebbe la stessa struttura sociale; l’inerzia di un dato sistema culturale rappresenta una decisa resi­stenza ad ogni cambiamento che coinvolga gli spessori profondi dello stesso. Questo aspetto, ad arte enfatizzato di fronte alle spinte innovatrici dello status di una società, e ripetutamente verificato dall’indagine etnologica, si deve altrettanto tenere in considerazione nell’evoluzione dei sistemi religiosi. Ma se non possiamo parlare di ovvia trasformazione dobbiamo immaginare in sua vece solo una drastica mutazione, una tragica trasformazione. Le origini del fatto religioso ed i suoi più essenziali contenuti sembrano dunque differire sensibilmente dalle attuali modalità; eppure queste ultime si sono comunque originate.
   
     E questo sembra essere un altro formidabile problema. Come avvenne?
   
     Le modifiche che dovettero verificarsi per dar origine a nuove modalità socio religiose urtarono sicuramente contro una strenua resistenza culturale, tesa a salvaguardare uno status quo profondamente distinto da quello delle successive società. Siamo dunque nella necessità di dover immaginare un salto, un gradino evolutivo nella storia delle credenze religiose. Una mutazione psico culturale? O una mera semplice rivoluzione sociale? Ma chi, o cosa e come poté procurare questo scatto, chi o cosa possedette l’energia capace di sradicare i fondamenti etico culturali e psico sociali di quelle culture primitive? Quale fu quindi il grimaldello capace di far saltare quest’opposizione, di forzare questo ostracismo? Dove cercare questa forza? Ogni tentativo di risolvere il problema della possibile transizione evolutiva tra distinte concezioni teologiche al di fuori dell’ambito filosofico risulta vano. Eppure questo particolare contenuto ideale, grazie al suo carattere puramente speculativo, dando la capacità di spaziare oltre i capisaldi di un dato sistema socio culturale, sembra rappresentare esso stesso il germe di tale trasformazione.  
          Osserviamo dunque come l’aspetto filosofico delle originali religioni possa ospitare la radice del tutto. Grazie alla nostra analisi possiamo concepire
1) modelli cosmologico teologici (tipo A) in cui l’uomo si trova in un rapporto di subordinazione etica rispetto a Dio, e 
   
      2) modelli cosmologico teologici (tipo B) in cui l’uomo non si trova in alcuno stato di subordinazione etica rispetto a Dio. 
          Ebbene: come si pone l’uomo dinnanzi ad un essere supremo, un dio creatore che non esplica alcuna funzione e sanzione morale nei suoi confronti? In quali risvolti psicologici?
   
       Una prima osservazione, semplice ed immediata, è che l’accesso, la partecipazione a quell’esistenza contemplata al di là della morte fossero assolutamente indipendenti dalla condotta etica terrena dell’individuo. Nei modelli (B) l’uomo è completamente indipendente dal punto di vista etico nei confronti della divinità e questa non attua alcun condizionamento etico sociale con quell’intensità ed estensione che invece ritroviamo nei sistemi successivi (di tipo A).
         Inquadrare l’esistenza di un essere umano in tali contesti conduce ad una prassi incomparabile rispetto a quella esprimibile nei confronti di una divinità onniveggente e censoria sotto il profilo morale: in questo secondo ambito ciascuno deve orientare la propria esistenza non sulla base di una totale autogestione etica, quanto sull’osservanza di una serie di norme e vincoli di origine divina.
   
      Nei sistemi (B) risulta impossibile definire, proprio per l’assenza di vincoli e proibizioni divini, eventuali azioni contrarie alle volontà della divinità. In termini più immediati e prossimi alla nostra quotidiana esperienza religiosa, tale situazione si può esprimere affermando come in tali religioni non sia concepito alcun concetto di peccato: sono religioni senza peccato. Di conseguenza... senza peccatori! Si provi solo ad immaginare quale senso esistenziale e del sacro ciò possa comportare! Stupefacente! L’importanza di questi sistemi, l’interesse che possono stimolare a chi, come noi, è abituato ad una concezione del sacro totalmente differente, è enorme. In tali religioni l’evento della morte è inteso in un quadro incomparabilmente diverso da quello che si presenta ad esempio in una religione morale quale il Cattolicesimo; la morte è immaginata solo come evento liberatore del proprio principio spirituale dai vincoli del corpo, come accesso incondizionato alla dimensione post mortem, e non quale termine ultimo del periodo in cui definire il proprio destino ultraterreno.
   
      Un fatto è inconfutabile: le religioni che fanno riferimento a divinità creatrici, tipiche di società egalitarie e non autoritaristiche, sembrano rappresentare, nel panorama religioso universale, il miglior candidato a modello delle originarie teologie preistoriche. Tenendo poi conto che solo da meno di 10.000 anni l’uomo si è organizzato in sistemi sociali imperniati su valori filosofici ed ambiti socio culturali diversi, (di tipo A), la più diffusa e persistente forma religiosa conosciuta nell’intera storia dell’umanità risulterebbe essere la classe (B). E l’esistenza di questo tipo di credenze è dovutamente documentata anche tra le attuali società primitive. La conclusione più ovvia è, visto quanto abbiamo già notato, la seguente: all’interno dell’universo religioso possiamo effettuare una profonda divisione. In una classe dobbiamo porre credenze religiose di tipo (B) in cui la divinità suprema non è investita di nessuna capacità d’intaccare la sfera morale, l’autodeterminazione etica dell’individuo e relativizzare il destino d’oltretomba in funzione di un superiore giudizio morale.
   
       Questi modelli costituiscono una classe che, malgrado la sua stupefacente eterogeneità di fondo, è caratterizzata da una profonda omogeneità del rapporto uomo-Dio. In questa classe di credenze l’individuo gode di completa autonomia etica nei confronti della divinità e non sente gravare su di sé alcuna censura, nessun deterrente di un giudizio morale in grado di condizionare inevitabilmente la sua esistenza ed il suo futuro ultraterreno; contemporaneamente queste credenze gli permettono di superare il tragico evento della morte con la positiva speranza in un futuro d’oltretomba.
   
     La parte restante dell’universo religioso è costituita dai modelli religiosi di tipo (A) dove divinità onniveggenti e morali esercitano un’azione censoria sull’individuo; in essi l’essere umano è posto in una condizione di subordinazione etica nei confronti della divinità. Tali modelli religiosi sono in grado d’intaccare, a causa di ben confermate e note influenze psico sociologiche negative, l’originario edificio filosofico concepito dall’uomo per risolvere l’orrore della morte tramite l’idea di una sopravvivenza oltre la stessa. La loro negatività è data dal fatto che nei sistemi (A) troviamo espresso e sacralizzato un principio comune a tutte le culture conosciute dell’epoca storica, sino ad oggi: il controllo etico dell’individuo, impostato questa volta sul più bieco e subdolo sfruttamento di quella dolce speranza sovrannaturale tramite il suo condizionamento a sanzioni morali e punizioni divine, strumento con cui si è attuata la negazione sistematica del sacro diritto all’autodeterminazione dell’uomo al contrario sostenuto dagli anteriori sistemi (B).

              Schema 2.1                                                          Schema 2.2

Ai fini di una maggior comprensione, si propone da qui in avanti l’uso del termine religione (in corsivo, e così varrà per eventuali aggettivi e così dicendo) esclusivamente per i sistemi religiosi di tipo (B) collocabili in questa classe, che indicheremo come «classe delle religioni».
Saranno invece collocati in una seconda classe, denominata «classe delle
teoetotomie» - dalle radici theòs (dio) ethos (costume di vita) e : tomia (cesura) – tutti i sistemi di tipo (A) che  esprimono un’azione autoritaristico repressiva tramite l’azione censoria e morale delle divinità.  
        Cosa comporta tale suddivisione? Il pregio principale di tale classificazione a grana grossa è di fornire una chiave d’interpretazione formalmente chiara e motivata dell’universo religioso, in grado di originare una profonda revisione filosofica dell’intero concetto di teismo. Classicamente esso è inteso quale corpus unico, in cui sono collocati tutti i sistemi teologici conosciuti, contrapposto all’eterna idea opposta: l’ateismo. Tale situazione può essere rappresentata dallo schema 2.1. 
   
     Con la nostra suddivisione lo schema in cui il teismo è posto quale univoco polo filosofico antitetico all’ateismo subisce un profondo cambiamento a causa della definizione, al suo interno, di una radicale suddivisione tra teismo religioso (B) e teismo teoetotomistico (A).  
        Questa nuova classificazione è esemplificata nello schema 2.2. In esso le religioni sono poste come alternativa sia dell’ateismo che delle teoetotomie. È da notare come le religioni risultino storicamente antecedenti a queste ultime di millenni.
   
     Per la loro maggiore antichità le religioni sarebbero provenire dalla cesura filosofica originaria tra ateismo e teismo, dall’originaria opzione affermativa dell’uomo nei riguardi del suo destino oltre la morte. L’origine delle teoetotomie sarebbe dovuta ad una postuma rielaborazione filosofica a carico del principio religioso; ma non una lenta evoluzione od affinamento delle religioni quanto una vera e propria rivoluzione, o mutazione culturale, indipendente dai processi di affinamento formale delle stesse religioni, nonché di molto successiva nel tempo rispetto all’originale approccio dell’uomo al sacro.  
        L’evoluzione religiosa si dirige infatti verso obiettivi propri, avvalendosi di itinerari evolutivi e vincoli distinti da quelli dell’evoluzione teoetotomistica; distinto è infatti il referente ultimo delle due dinamiche nelle rispettive valenze filosofiche, esistenziali, teologico sapienzali. Ancor più muta lo scenario sociale in cui queste metafisiche alternative hanno conosciuto le loro più ortodosse manifestazioni, in cui si è realizzata la frazione più rilevante della loro evoluzione; un insieme di rapporti sociali ed economici che legano tra loro civiltà anche lontane nel tempo e nello spazio, comunque accomunate da questa particolarità culturale.  
         Ebbene quali prime considerazioni possiamo trarre da questa suddivisione? Finora tutte le credenze e teologie conosciute venivano inserite in un unitario schema di sviluppo del teismo (vedi schema 2.1), con la sola cura della loro collocazione storico culturale in base a connotati filosofico teologici, ed in un implicito riferimento ai sistemi della nostra cultura occidentale quali termini superiori di arrivo dell’intero processo di evoluzione religiosa. Ciò ha condotto ad una distorta interpretazione del trascendente, eccessivamente etnocentrica, ed ha inevitabilmente affossato la discussione sull’origine di questo sentimento umano su posizioni incoerenti e preconcette.
   
      Autori di evidente orientamento fideistico hanno inteso, ovviamente, la religiosità umana come manifestazione inevitabile di un profondo ed invariabile bisogno radicato nell’animo dell’uomo. Un retaggio universale, basato su un senso di inferiorità, sudditanza e timore riverenziale nei confronti dell’arcano mysterium tremendum che aleggia sull’uomo, che trasuda dalla grandiosità della natura a manifestazione di un ordine supremo del creato.
   
     Le correnti atee per contro, hanno inteso la religiosità umana esclusivamente come prodotto di particolari realtà socio economiche e culturali, retaggio dell’ignoranza e della superstizione propria di primitivi contesti culturali, in cui l’uomo era incapace di una comprensione oggettiva della realtà, prodotto di tutta una serie di degradazioni della realtà sociale che prima o poi dovrà inevitabilmente soccombere all’incalzare di una conoscenza laica e  scientifica. Alla luce dell’attuale suddivisione in teoetotomie e religioni entrambe le interpretazioni risultano in realtà inadeguate: esse contengono considerazioni relative al significato ed alle modalità di realizzazione del sacro nei vari contesti socio culturali del tutto gratuite ed in alcun modo suffragate da riscontri etnologici ed oggettive valutazioni psicologiche e filosofiche.
   
      È innegabile come in molte società il trascendente sia vissuto in un manifesto timore riverenziale nei confronti di una divinità la cui ombra incombe sull’uomo; ciò tuttavia non rappresenta né l’inevitabile condizione ontologica instaurabile tra uomo e Dio né, sulla base delle documentazioni finora raccolte, l’originaria condizione in cui l’essere umano giunse al cospetto del sacro. Specialmente nelle culture primitive, la divinità è investita di attributi e funzioni totalmente incompatibili con una qualche attività censoria delle azioni umane.
   
      Ad esempio, osserveremo come solo in relazione al verificarsi della degenerazione della realtà sociale dovuta alle teoetotomie sono possibili quei profondi scadimenti della situazione esistenziale umana denunciati dalla critica marxista. Eppure quest’eventualità non rappresenta affatto l’inevitabile conseguenza dell’accettazione del principio teistico tout court, quanto il risultato dell’accoglimento di una credenza teoetotomistica. Nelle religioni non sembrano verificarsi minimamente le degenerazioni del tessuto socio-economico e culturale alla base dell’alienazione denunciata dal marxismo. In tali contesti sono affermati principi socio economici radicalmente diversi da quelli delle teoetotomie e, come vedremo, tali realtà sono aliene da quella struttura di classe postulata dal marxismo come presupposto di fondo dello stesso sentimento religioso, della nozione di anima soffio. Come si vede, queste evidenze rappresentano una smentita netta ed inequivocabile della validità della visione marxista della religiosità umana.
   
      E passiamo agli aspetti psico sociali. La divinità assumerebbe in sé, come sostenne Freud, un insieme di valenze psicologiche imperniate sulle dinamiche edipiche. Alla luce della nostra suddivisione è immediatamente verificabile come questa eventualità non risulti l’inevitabile conseguenza dell’accettazione dell’idea di Dio, visto che le divinità religiose non esprimono alcuno di questi attributi in rapporto all’uomo. L’esistenza di forme religiose contribuisce quindi a proiettare una lunga ombra su molte teorie relative alle origini del sacro nella storia dell’uomo e sollecita l’urgenza di una nuova visione del teismo che renda giustizia a queste eccezioni. Questo è l’obiettivo della dicotomia tra religioni e teoetotomie: essa rappresenta una ristrutturazione del teismo che rimuove molte dottrine attuali dal loro infondato ruolo di prime della classe, rivalutando modelli finora erroneamente intesi quali forme imperfette, minori ed evidenziando nell’universo del teismo l’esistenza di itinerari e dinamiche evolutive esclusive quanto indipendenti sia per le religioni che le teoetotomie.  
         Le strutture religiose possono dunque confrontarsi positivamente con le teoetotomie sotto il punto di vista filosofico e teologico senza palesare remore in relazione ai loro meno progrediti sistemi socio economici. Esse anzi rappresentano un’alternativa estremamente interessante per l’uomo moderno, una base di riflessione che lo stesso potrà arricchire in modo ineguagliabile il suo attuale bagaglio filosofico culturale. Ma passiamo al problema dell’origine delle teoetotomie. Come e perché avvenne questo scadimento di un’idea che negli originali intenti aveva solo il fine di sollevare lo spirito umano prostrato dall’orrore della morte? Come poté questa speranza divenire essa stessa orrore?

Capitolo III°                                                                                                  Back