Capitolo VI°                   capitolo VII°                       Back    

Il primo passo è quello di stabilire la natura e la collocazione di un sì grave evento nel lunghissimo itinerario della nostra storia sulla terra. Dunque, in Gn 2 così si legge:

        (Gn 2,7) «... allora modellò Javhè Elohim l’uomo polvere dal 
         terreno, e soffiò nelle sue nari l’alito della vita, e divenne l’uomo un essere vivente.
        E piantò Javhè Elohim un giardino in Eden ad oriente,
        e vi pose l’uomo che aveva modellato.
   
     E fece germogliare Javhè Elohim dal terreno ogni albero bello
   
     a vedersi e buono a mangiarsi,
        e l’albero della vita nel mezzo
   
     del giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male...»
         …
        (Gn 2,15) «Prese dunque Javhè Elohim l’uomo, e lo collocò nel 
        giardino di Eden, per lavorarlo e custodirlo.
        E diede un comando Javhè Elohim all’uomo dicendo:
        "Di ogni albero del giardino puoi certamente
        mangiare, ma dell’albero della conoscenza del bene
        e del male non mangiare: perché il giorno che tu ne
        mangiassi, moriresti di certo’.
   
     E disse Javhè Elohim:
   
     Non è bene che l ‘uomo sia solo,
   
     gli farò un ausiliare pari suo...»
         …
        (Gn 2,21) «Allora fece cadere Javhè Elohim un sonno profondo 
        sull’uomo e quello si addormentò; e prese una delle costole
   
     e saldò la carne al posto di essa; e costruì Javhè
   
     Elohim la costola che aveva presa dall’uomo
   
     (facendone) una donna e la condusse all’uomo.
   
     E disse l’uomo:
   
     Questa volta è osso delle mie ossa e carne della mia
   
     carne: questa si chiamerà donna perché dall’uomo fu  
   
     tratta.
   
     Perciò abbandona l’uomo suo padre e sua madre e si
   
     unisce alla sua donna e i due diventano una sola carne.
   
     Ed erano ambedue nudi, l’uomo e la sua donna, e non ne
   
     sentivano vergogna».Il nostro primo approccio alla decodifica di questi testi sarà unicamente impostato sul riconoscimento dell’ipotesi che l’intero universo sia stato originato, con le modalità che la scienza sta svelando – IE –, per una volontà divina di tipo (B). Ci porremo dunque nell’alveo di una concezione cosmologica che, pur riconoscendo appieno i risultati delle scienze attuali, non escluda l’ipotesi secondo la quale a monte tutto il creato possa essere contemplata una entità increata, sovrannaturale, da intendere quale causa prima del creato: Dio.
         Il primo capitolo del Genesi sancisce, pur con contenuti poetici e fantastici, un principio filosofico ben preciso: l’essere di una divinità, ente increato, giustificazione dell’universo, ente creato. Abbiamo mostrato come sia possibile avanzare l’ipotesi in un universo indeterministico, di una progettualità divina non incentrata solo sull’uomo, ma di cui lo stesso ne è parte, in armonia con una sottesa predisposizione della natura – ipotesi IE.
         Possiamo dunque associare alla figura di Elohim i tratti caratteristici di una divinità religiosa (B) proponendo un parallelo tra tale narrazione ed un universo in evoluzione, indeterministico, inteso come realizzazione di una volontà sovrannaturale rivolta all’emersione di particolari esseri ontologici: creature eticamente libere e per questo norma dell’immagine di Elohim.
         Ma nel Genesi si parla anche di una caduta sperimentata dal genere umano nel corso della sua storia terrena, e questo è stato sinora l’aspetto più difficile da interpretare. Si parla di un fatto reale? In tal caso, quale e in quale periodo storico sarebbe possibile collocare tale evento? Quale umanità potrebbe esserne stata artefice? Siamo in grado di trovare traccia di questo nei reperti storici, nelle attuali conoscenze di antropologia e paleontologia? Forse.
        Un primo, decisivo indizio è celato proprio nella Genesi:«Finalmente Elohim disse: “Facciamo l’umanità a norma della nostra immagine, come nostra somiglianza, affinché (e) possa dominare sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e sulle fiere della terra e fin su tutti i rettili che strisciano sulla terra”.
   
      Ed Elohim creò gli uomini a norma della sua immagine; a norma dell’immagine di Elohim li creò; maschio e femmina li creò» (Gn 1, 26-27).In questo passo viene affermata una similitudine tra l’uomo e divinità, tra l’essere creato e l’essere sovrannaturale per eccellenza: il suo creatore. Il senso della creazione sarebbe rappresentato dall’emersione di un’umanità creata a norma dell’immagine divina. Ma in quale aspetto dell’essere uomo, della nostra sfera esistenziale si esprime tale similitudine? Un’immagine, una somiglianza deriva da tre fattori fondamentali;
            
            1)   l’oggetto dell’immagine;
            2)   il soggetto dell’immagine;
            3)   una relazione tra oggetto e soggetto.L’oggetto dell’immagine è, ovviamente, la divinità.
         Decisiva appare allora la determinazione della figura della divinità, dei suoi attributi caratteristici ed esclusivi, essendo essa origine dell’immagine che poi verrà trasferita al soggetto della stessa: l’uomo. La nostra scelta cade su una divinità creatrice religiosa (B) i cui caratteri di fondo risultano: l’onnipotenza, l’onniscienza - non morale, censoria nei confronti degli esseri creati -, l’eternità espresse nella loro valenza creatrice. Gli attributi filosofici di cui sopra non rappresentano però l’essenza, il carattere più pregnante ed inequivocabile di tali divinità. C’è un altro carattere, decisivo, che è stato finora sempre omesso – chissà mai perché! – in tutte le considerazioni teologiche: la loro perfetta, assoluta libertà!La divinità è innanzitutto libera, perfettamente consapevole del senso del suo manifestarsi: da ciò risulta che la creazione, proprio per il fatto di essere perfetta ed incorrotta manifestazione della limpida volontà divina, non può che risultare altrettanto gratuita e libera. Nella concezione religiosa l’evento creativo appare in pienezza, termine così caro ai credenti, perfetto e tangibile gesto d’amore elargito da Dio alle creature coscienti che sorgeranno quali naturali vettori del fuoco dell’intelligenza e della libertà consapevole. Qui non si erge alcuna figura sovrana esigente di obbedienza e remissione, che ammonisce sudditanza e contrizione, ma si contempla una divinità che offre in modo concreto ed immediato libertà, partecipazione, dignità e compiacimento.
         L’uomo, «membro del consorzio di esseri autocoscienti attesi nel progetto della creazione», riflette in sintonia col creato quest’immagine, facendola propria nel contesto di una metafisica religiosa. Questo ci permette di interpretare in modo nuovo il «diventare norma dell’immagine di Elohim», il manifestarlo nell’esistenza mondana. Tale somiglianza non si cela in una specifica natura di questi esseri, non procede da un’origine biologica distinta, o dalla prodigiosa infusione di un elemento sovrannaturale nelle carni di un essere vivente; scaturisce piuttosto naturalmente dalla naturale manifestazione di quell’intelligenza alla cui emersione sembra essere dedicato l’intero creato. L’essere immagine e somiglianza di Dio non è necessariamente una condizione ulteriore, infusa dalla divinità nella natura di tali creature, da cui le stesse sarebbero preziosamente investite loro malgrado. Questo è solo una volgare ed infondata remora magicistico oracolare, frutto di un atteggiamento infantile e superstizioso. Ma non eravamo superiori e differenti dalle popolazioni primitive? E che fine ha fatto la pompa magna della nostra superiorità e razionalità?Cerchiamo di essere più realistici. Possiamo allora intendere tutto ciò pensando ad uno stadio esistenziale naturale a cui creature coscienti possono naturalmente approdare solo ed esclusivamente nella misura in cui giungono ad una particolare comprensione del creato tramite il loro naturale intelletto. L’essere immagine di Dio non è necessariamente sinonimo di una manifestazione sovrannaturale ma può indicare la prassi di un essere cosciente, dotato d’intelletto, improntata sull’ipotesi dell’immortalità ed incorruttibilità del proprio nucleo personale, fondamento extranaturale della propria individualità.
         Possiamo quindi proporre un’interpretazione di Gn 1-3 totalmente collocabile nell’alveo del discorso finora sviluppato alla luce delle nuove concezioni scientifiche, in grado di cagliare un contenuto teologico estremamente coerente e pregno di significati.
         Ed ora attenzione: siamo nel luogo proibito e misterioso! Se leggiamo noi il terzo capitolo del Genesi, e non ce lo facciamo raccontare da nessuno, scopriamo un dato di fatto su cui si è fatta una confusione terribile. C’è del losco… in Danimarca! Ed eccoci al fatto saliente.«E Jahweh-Elohim fece spuntare dal terreno ogni sorta d’alberi, 
         attraenti per la vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita 
   
     nella parte più interna del giardino, insieme all’albero della 
        conoscenza del bene e del male
» (Gn 2,9).«E Jahweh-Elohim diede un comando all’uomo, dicendo: 
         “Di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare; 
          ma dell’albero della conoscenza del bene e del male 
          non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu te ne ciberai, 
   
      dovrai certamente morire”» (Gn 2, 16-17).«Ma il serpente disse alla donna: “…Elohim sa che nel giorno 
         in cui voi ne mangerete, si apriranno allori i vostri occhi e 
         diventerete come Elohim, conoscitori del bene e del male.” 
        Allora la donna… prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede 
        anche al suo marito, che era con lei, ed egli ne mangiò. 
        Si aprirono allora gli occhi di ambedue e conobbero che essi 
        erano nudi; perciò cucirono delle foglie di fico e se ne fecero 
        delle cinture…E Jahweh-Elohim disse allora: 
        “Ecco che l’uomo è diventato come uno di noi, conoscendo 
        il bene e il male! Ed ora, ch’egli non stenda la sua mano e 
        non prenda anche l’albero della vita sì che ne mangi e viva 
        in eterno!”»
(Gn 3, 4-22) Ebbene, concentriamoci su questo «conoscere il bene ed il male». Cosa vuol significare? Secondo l’interpretazione canonica l’umanità era, prima della caduta, umilmente sottomessa alla legge divina, condizione espressa dall’obbedienza del precetto di non cibarsi dei frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, e all’uomo, proprio per questa obbedienza, sarebbero stati riservati i doni dell’immortalità, immunità dal dolore, santità spirituale. L’uomo era eticamente sottomesso al suo creatore e questa obbedienza rappresentava la conditio sine qua non della felice esistenza sovrannaturale nel giardino dell’Eden prima della caduta.
         In seguito al peccato originale, rappresentato dal cibarsi del «frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male», e consistito secondo la Chiesa nella «scelta della propria autonomia etica», ovvero nel voler determinare autonomamente le categorie del bene e del male, l’umanità perse questi doni, precipitando nel degrado della corruttibilità, della morte, della concupiscenza e del dolore, della morte spirituale.
         Ebbene, è possibile ribaltare radicalmente questa interpretazione. Innanzi tutto proviamo a dare una collocazione storica, verificabile e realistica a tutto ciò. E mettiamo da una parte ogni pretestuosa idea su aspetti sovrannaturali e via dicendo. Per perseguire questo obiettivo dobbiamo immediatamente liberarci di un ingombrante mito, tipico dell’interpretazione classica: quello dei doni preternaturali, dell’esistenza sovrannaturale elargita nell’Eden all’umanità originaria. In questo modo possiamo rivolgerci con nuove risorse alla decifrazione del testo: movendo dalla teoria dell’evoluzione cerchiamo innanzitutto di individuare un contesto psicologico e culturale sufficientemente evoluto per supportare l’affermazione religiosa dell’esperienza del sacro.Immaginiamo che non ci sia traccia di alcuna condizione sovrannaturale: l’umanità verrebbe allora intesa sin dalle origini, come ora, corruttibile e mortale pur seguitando ad esprimere, in nuovi contenuti, il suo essere immagine e somiglianza di Dio. Questo approccio storico antropologico ci consente innanzi tutto di associare, e senza problema, il termine Ådåm – si noti singolare collettivo con cui si indica l’umanità, una popolazione umana! – a popolazioni di H. sapiens sapiens. Dunque si ammette una collocazione tardiva rispetto al processo di ominazione – di quelle che fanno venir il voltastomaco e l’emicrania al teologo –, e questo vuol dire che ci si rivolge a popolazioni di H. sapiens sapiens le cui culture potevano manifestare una concomitanza dei seguenti elementi:  1) processo dell’ominazione pienamente realizzato;
            2) diffusione cosmopolita;
            3) significativo ed omogeneo sviluppo culturale;
            4) ampia diffusione di concezioni animistico religiose (B).Abbiamo visto come solo a partire dai 50.000 anni or sono, nel pieno Paleolitico, sembrano pienamente soddisfatte le condizioni su esposte. Nella specie umana, stabilizzatosi il processo di evoluzione biologica della specie H. sapiens sapiens, si stava attuando un deciso processo di evoluzione culturale. Le società umane, fondate su caccia, pesca e raccolta di cibo, esibivano uno scarso spessore delle gerarchie sociali e rapporti sociali alieni dall’affermazione di un qualsiasi principio autoritaristico di repressione e sfruttamento.
         A questi periodi già risalgono pratiche collettive come le sepolture e la manipolazione rituale dei cadaveri, suggello di una sua sensibilità profonda verso tematiche connesse con l’autocoscienza della propria condizione esistenziale, del suo ineluttabile, muto destino. Tali evidenze testimoniano la scoperta dell’esperienza del trascendente che si concretizza in edifici religiosi simili a quelli delle attuali società di cacciatori raccoglitori. Ebbene, forti di molte conferme etno-antropologiche, andiamo dunque ad affermare, in antitesi con le posizioni ortodosse:1) un’origine naturale, poligenetica, evolutiva della specie umana;
          2) una diffusione ecumenica dell’umanità che da lì a poco sarebbe stata artefice della caduta;
          3) l’impossibilità dell’uomo di accedere della dimensione sovrannaturale se non in modalità religiose (B).Questa collocazione è essenziale sotto il profilo teologico. Da ciò deriva che l’umanità candidata a rappresentare il consorzio di esseri umani indicato dal termine Ådåm, si sia affacciata alla concezione del sovrannaturale, al cospetto della divinità salvaguardando integralmente la propria autonomia etica nei confronti di quest’ultima. L’uomo dunque era eticamente indipendente nei confronti della divinità prima della caduta – si noti, l’esatto contrario di quando sostenuto dalla dottrina cattolica. Egli giunse ad ipotizzare l’esistenza di una divinità tramite ipotesi religiose, e questo lo aprì ad una dimensione trascendente di cui lo stesso sarebbe parte sempre salvaguardando integralmente l’autonomia etica.
         Tale interpretazione risulta lecita ed efficace. Le figure di Adamo ed Eva posti come custodi del giardino dell’Eden possono essere tradotte come poetica e licenziosa rappresentazione mitologica di un’umanità pienamente realizzata, in armonia con la natura e consapevole della sua valenza di immagine e somiglianza di Dio grazie ai contenuti dell’ipotesi religiosa: individui liberi e capaci di poter superare l’esistenza terrena grazie alla speranza di sopravvivere nell’oltretomba. Tale chiave di lettura evidenzia aspetti dell’esperienza religiosa immediatamente assimilabili ai concetti di comunione con Dio, ed immortalità implicitamente evocati dalla narrazione biblica dell’uomo nel paradiso terrestre: un tangibile trascendimento dei limiti dell’esistenza, la profonda armonia dell’autocomprensione religiosa di sé, del creato e del sacro.
         È innegabile come tali contenuti possano riflettere nella prassi quotidiana un concreto alone di trascendenza. Come si vede non si invoca alcun contesto sovrannaturale che investa prodigiosamente questi esseri al fine di preservarli dalla corruzione, dolore e morte corporali. Si dà solo risalto al fatto che l’auto percezione di un individuo, ed ancor più il senso etico collettivo, possano essere impreziosite da profonde convinzioni religiose che realizzano, senza intaccarne l’autonomia etica, una comunione spirituale con la divinità, affermando una profonda affinità con il trascendente. I pregi della condizione dei capostipiti anteriore alla caduta sarebbero dunque interpretabili solo come riflessi di un approccio all’esistenza profondamente pervaso da un ben preciso ideale filosofico: una conquista intellettuale che possiamo immaginare attendeva l’uomo, o chi per lui a livello universale, alle soglie di un appropriato sviluppo psichico, allorquando il suo intelletto giunse ad elaborare tematiche filosofiche dai connotati religiosi.
         No, non siamo pazzi: tutto realistico, tutto possibile, tutto immediatamente chiaro. Wittgenstein ed Ockham dove siete? Allora: in questa nuova concreta chiave di lettura si propone, finalmente, l’interpretazione delle mitologiche figure degli alberi della vita e della conoscenza: lo scoglio dove sono arenati tutti sinora.
         Nel centro del lussureggiante giardino edificato da Dio per l’uomo sorgevano due alberi, i cui frutti avrebbero potuto dare la vita eterna, nel caso dell’albero della vita, o la morte, nel caso dell’albero della conoscenza. Dato che si è rifiutato qualsiasi accenno ad interventi sovrannaturali, attribuiremo senso concreto a queste mitiche figure. E ciò è perfettamente possibile.
         Il centro del giardino dell’Eden rappresenterebbe il cuore del gesto creativo divino: la realtà esistenziale in cui l’uomo fu collocato dal creatore. Tale realtà sarebbe identificabile nella possibilità di sperimentare intellettualmente la propria eternità, esperienza riconducibile al godere dei frutti dell’albero della vita. Ebbene proponiamo di tradurre tale simbolo in una accettazione dell’opzione religiosa:Albero della vita = approccio ad una teologia/cosmologia religiose.Passiamo all’albero della conoscenza del bene e del male. Ebbene, l’esperienza espressa dal mangiare dei frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male starebbe a rappresentare l’approccio all’opzione teoetotomistica:Mangiare dei frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male = accettazione di una teologia/cosmologia teoetotomistiche.Basta trasporre in queste antitetiche teologie le mitiche figure degli alberi della vita e della conoscenza del bene e del male per aver una chiave di lettura lecita quanto potente. Tutto diventa di una chiarezza sconcertante! Tutti i problemi sinora lamentati si dissolvono immediatamente. Tutto il senso tragico di tale orrenda trasformazione emerge concreto e netto, immediato!
         È straordinario osservare come associando all’esperienza religiosa la figura dell’albero della vita e all’esperienza teoetotomistica quella dell’albero della conoscenza del bene e del male si ottiene un’immediata corrispondenza con i più significativi e peculiari contenuti filosofico teologici delle due classi del teismo.
         Nelle religioni l’aspetto più rilevante è rappresentato dall’estensione della sfera individuale al di là degli ambiti naturali dell’esistenza terrena, aspetto da intendere quale spiraglio verso l’immortalità: chiaro è allora il collegamento con quell’immortalità che l’albero della vita avrebbe potuto garantire all’uomo (Gn 3, 22). Nelle teoetotomie, al contrario, assume innegabile rilievo il dualismo bene-male, luce-tenebre. La pesante irruzione etico morale, censoria, della volontà divina nell’esistenza dell’individuo è infatti direttamente riconducibile alla conoscenza del bene e del male – ovvero la conoscenza, interiorizzazione di una legge divina che stabilisce ciò che è bene da ciò che è male –  con cui l’agiografo nominò l’albero della discordia tra uomo e Dio.
         Per mostrare le incertezze che regnano sull’ortodossa interpretazione di tali brani riportiamo un commento estratto da una versione del Genesi delle Edizioni Paoline, con tanto d’Imprimatur, e riferito al versetto nel quale il serpente, rivolgendosi ad Eva, direbbe: «... nel giorno in cui voi ne mangerete, si apriranno allora i vostri occhi e diventerete come Elohim, conoscitori del bene e del male» (Gn 3, 5). In merito a quest’ultima espressione l’autore così si esprime: «... conoscitori del bene e del male; nuova frase ambigua; in bocca del serpente prende una accezione in sé esatta, ma contraria all’intenzione divina. Difatti il diavolo gli dà il significato proverbiale di conoscere «tutto», in teoria e in pratica (omnia nosse et ommnia posse): onniscienza che è onnipotenza, penetrare i segreti della natura e tutti i misteri della vita, cose che già Dio aveva comunicato all’uomo, ma condizionate all’umile sottomissione della creatura al Creatore.
   
      Sottomissione che l’uomo non volle accettare, perché, secondo Dio, conoscere il bene e il male è volere l’autonomia etica, farsi regola di se stesso, come la divinità».Abbiamo esposto le posizioni ufficiali della chiesa cattolica in merito a questi punti. Passiamo all’alternativa. La riflessione che, anni or sono, diede luogo alla formulazione di questa inedita interpretazione fu originata dai seguenti quesiti: «Cos’è il bene, cos’è il male? Cosa significa conoscere il bene e il male?». Nelle espressioni quotidiane il termine «bene» viene usato come sinonimo di buono, con riferimento a situazioni soddisfacenti e vantaggiose, di affetto, di valutazioni positive, o di utile economico, tecnico o morale, etc. Per contro, il termine «male» denota azioni o situazioni negative, indesiderate di vario tipo.
         Tali termini ricorrono comunemente come sinonimi di giusto o sbagliato, gradito o non gradito – un fatto questo che ha evidentemente ingannato chi vide nel gesto del cibarsi del frutto dell’albero della conoscenza l’approccio dell’uomo al discernimento morale, alla coscienza riflessiva. Ma i teologi medievali non dovevano collocare in tempi lontanissimi l’emersione della coscienza umana: loro avevano un Adamo già immediatamente uomo in un fiat! Diverso quando quest’emersione si dilunga per milioni di anni iniziando da popolazioni viventi niente affatto umane.
         In realtà nel Genesi i termini «bene» e «male», l’espressione «… conoscenza del bene e del male» assumono una accezione molto meno ovvia e generale. Affermare: «Questo è giusto,... questo non è giusto», esprime una valutazione condotta sulla base di un confronto finito tra ipotesi basate sul principio logico di causalità, dunque su una progettualità, ed il reale accadere di determinati eventi. Dallo scolpire una selce alla nostra vita sessuale facciamo ricorso con alterno profitto a ragione, esperienza e sentimenti per operare con consapevolezza, responsabilità e passione. Ebbene, le accezioni di bene e male di cui si parla nel Genesi indicano tutt’altra cosa: esse assumono un peculiare significato teologico.
         Questi termini sono da riferire a teologie teoetotomistiche; in particolare ciò che investe l’individuo posto in una costellazione (A) dove si afferma un’opposizione cosmica tra il principio sovrannaturale del bene ed il principio sovrannaturale del male. Il bene è tutto ciò che emana, conduce e rende partecipe all’affermazione naturale e sovrannaturale di tale principio. Il male tutto ciò che si oppone a quell’affermazione. «Conoscere il bene ed il male» vuol dire partecipare, essere coinvolto in questa immane opposizione tra il Dio del bene ed il suo antagonista, il Dio del male, tra la luce e le tenebre. Ma quest’esperienza, che strappa in due l’intero creato, e di conseguenza l’uomo, è concepibile esclusivamente nelle teoetotomie!
         Ecco quindi un diverso, inatteso significato della conoscenza di cui si fa riferimento nel testo biblico: conoscere il bene vuol dire comprendere l’esistenza di una polarizzazione universale, cosmica, rivolta al bene, di una volontà sovrannaturale diretta a quest’affermazione che irrompe nella sfera esistenziale e rende forzatamente partecipi. Agire nel bene indica agire in conformità delle sacre volontà del Dio del bene. Conoscere il male, fare il male, agire nel male vuol dire opporsi a questa volontà, o ignorarla optando per l’affermazione dei principi del Dio del male. Conoscere il bene ed il male equivale a sperimentare nel proprio spazio psicologico ed etico, nell’ambito di una concezione teoetotomistica, lo scontro tra bene e male, tra luce e tenebre: una realtà ontologica, mondana e metafisica in cui qualsiasi creatura cosciente è ineluttabilmente coinvolta e stritolata. Nelle teoetotomie è definita una legge emanata dal Dio, e tutelata dal clero, che indica tutto ciò che l’uomo deve aborrire e ciò a cui deve attenersi per partecipare all’affermazione del bene e rimanere fedele al Dio del bene, suo creatore.
         Una serie di prescrizioni etiche di origine divina tramandate di generazione in generazione, ma ancor più inglobate nel complesso delle tradizioni e della cultura di ogni società teoetotomistica ed espresse addirittura a livello socio economiche. Nella prassi conoscere il bene ed il male, queste due categorie morali, vuol dire assimilare tutta una serie di norme che delimitano in una concezione teoetotomistica il lecito dall’illecito, il bene dal male. Una profonda interiorizzazione, spesso inconscia, di tutta una casistica che condizionerà prepotentemente – ed ecco l’intuizione fondamentale del Super-Io di Freud! – l’esistenza di quell’essere eticamente autonomo la cui emersione sulla terra aveva rappresentato la espressione locale, terrestre, del fine creativo: una interiorizzazione che ne sancirà ineluttabilmente la morte psicologica.
         Ci appare quindi un’inedita interpretazione della morte susseguente alla caduta dei protoparenti. La Chiesa Cattolica, in perfetta contraddizione con ogni più elementare cognizione scientifica, considera la morte minacciata in Gn 2, 17 e temuta in Gn 3, 34 come morte fisica, oltre che spirituale, data dalla perdita dell’immortalità e santità originali. Assolutamente infondato!
         Secondo la nuova interpretazione questa morte può essere molto più realisticamente considerata come scomparsamorte! – della figura dell’uomo fatto ad immagine e somiglianza di Dio dovuta all’affermazione ex novo di un ideale teoetotomistico (A).
         In Genesi 3, 1-24 si descriverebbe allora sì di un’atavica caduta dell’umanità originale i cui deleteri effetti fisici e spirituali si sarebbero poi perpetuati di generazione in generazione nell’intero genere umano. Ma non nel senso sinora inteso. Vediamo cosa procura la radicale inversione che scaturisce dalla nuova lettura del brano. L’umanità anteriore all’evento della caduta è colta nell’espressione delle seguenti prerogative (vedi fig. 7.1):1) esistenza armoniosa nella natura;
          2) intima comunione con una divinità (B);
          3) percezione di una propria perfetta valenza sovrannaturale connessa con una fede religiosa nell’immortalità;
          4) assoluta incapacità di conoscenza di categorie morali collegate con i concetti teologici del bene e del male e degli
              effetti a ciò connessi; da cui:
          5) totale autonomia etica.Purtroppo in questa sintesi tralasceremo un aspetto estremamente importante: l’influenza esercitata sulla sfera sessuale dal passaggio da tale condizione a quella seguente all’evento della caduta che si deriva dal particolare del ruolo della serena nudità e della successiva vergogna della propria nudità di Adamo ed Eva prima e dopo essersi cibati del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Ma tant’è. L’umanità successiva a tale evento godrebbe invece:1) esistenza non armonica, corrotta nella natura;
          2) perdita della comunione con la divinità;
          3) scadimento della propria valenza sovrannaturale conseguente all’assoggettamento dell’individuo allo sperimentare la
             conoscenza di categorie morali collegate con i concetti teologici del bene e del male propri di una teologia
             teoetotomistica (A); da cui:
          4) perdita dell’autonomia etica.La nostra ipotesi afferma dunque una trasformazione culturale della realtà esistenziale umana avvenuta in tempi relativamente brevi e recenti a seguito di una sempre più diffusa transizione culturale: il passaggio da sistemi sociali improntati su forme religiose a sistemi teoetotomistici, a cui seguirono sia pesanti degenerazioni nella sfera esistenziale dell’individuo, nel suo rapporto con la divinità che profonde implicazioni socio economiche. Questa degenerazione si diffuse nel pianeta uomo tramite la diffusione socio economica di tali culture, come conferma la messe di conoscenze etnologiche e storiche in nostro possesso.

Fig 7.1. 

         La nostra interpretazione verte sul forte parallelo tra i contenuti culturali tipici dell’esistenza umana intesi come anteriori all’evento della caduta e la realtà esistenziale propria di culture di tipo religioso. Quest’identificazione, concreta e verificabile, rappresenta una trasposizione delle licenziose e sapienti narrazioni del Genesi scientificamente ben documentata. Infatti, osserviamo con sorpresa che quest’interpretazione ci permette di contare su una quantità enorme di conferme storiche ed etnologiche! Su questa base accingiamoci quindi a ricostruire negli aspetti salienti la transizione che portò all’affermazione di società di matrice teoetotomistica nell’umanità. Attenzione però: come vedremo alla fine, non stiamo riducendo il contenuto biblico a fatti solamente storici e sociologici. Il significato teologico ed ecumenico apparirà quanto mai integro e significativo.
         La classificazione dei complessi società-teismo sovrappone la cesura religioni-teoetotomie a quella esistente tra sistemi sociali a-classisti e classisti – ecco il contributo, rivisitato, di Marx. Basandoci su questa correlazione, potremmo concludere che il più immediato indizio del verificarsi di eventi riconducibili alla caduta biblica sarebbe rappresentato di dati relativi all’affermazione dei primi sistemi classisti, delle prime società moderne della storia umana. L’intervallo di tempo in cui cercare segni di questa trasformazione risulta in prima approssimazione esteso tra i 50.000 anni or sono ed i 5.000 ¸ 4.000 anni a.C.; orizzonte storico quest’ultimo in cui si hanno evidenti documentazioni di una diffusa affermazione di società teoetotomistiche (A).  Indizi di tale trasformazione possono essere rintracciati presso l’estremità temporale a noi più vicina; in prima approssimazione intorno dai 15 ¸ 10.000 anni in poi, periodo in cui inizia l’era Neolitica.
         Culturalmente e spiritualmente l’uomo del Paleolitico superiore affina la sua natura, la sua esistenza come cacciatore raccoglitore dando nuove forme a questo retaggio, consolidandone i contenuti di fondo. Eppure, durante questi periodi non si verifica alcuno strappo, nessuna lacerazione della sfera esistenziale e socio culturale dell’uomo. Nell’ormai raggiunta diffusione cosmopolita, l’H. sapiens sapiens e le sue culture penetrano nel Neolitico manifestando una fondamentale omogeneità e un’indubbia coerenza formale dei contenuti sociali, culturali e sapienziali. L’intero Paleolitico sembra procedere, nelle sue lentezze, lungo un itinerario di apposizioni, ricorsi tecnico culturali ed affinamenti evolutivi documentati da una lunga teoria di evidenze. Ma i reperti paleontologici restituiscono una realtà comunque incentrata sullo stesso polo esistenziale delle culture in cui si sarebbero originate le prime ipotesi spiritualistiche, le prime religioni minimali (B). Sino alle soglie del tardo Neolitico non sembrano emergere dati relativi a qualsivoglia trasformazione socio economica e culturale capace di presupporre tale rivoluzione. Dovremmo quindi restringere al solo Neolitico, diciamo dai 12.000 anni fa in poi, l’intervallo in cui cercare eventuali echi di tale fantomatico ed universale evento. Si noti, anche se solo di sfuggita, come con questa nostra ipotesi  le datazioni storiche comincino a collimare con quel che possiamo storicamente trarre analizzando la tradizione biblica! Sarà un caso?In questo periodo osserviamo un evidenza decisiva. Il Neolitico rappresenta un’era cruciale nella storia dell’umanità. Contrariamente ai periodi precedenti, i progressi socio culturali e tecnologici del Neolitico si affiancano ad una repentina e profonda trasformazione del tessuto socio culturale di diverse società umane, le quali imboccano decisamente un’evoluzione strutturale che le porterà direttamente sino alle attuali società moderne. Ad oriente del Mediterraneo si assistette, tra gli 8 ¸ 6.000 anni a.C., ad una profonda trasformazione del regime socio economico di alcune popolazioni, le quali passarono da un’esistenza basata sulla caccia e la raccolta di cibo a quella fondata su agricoltura ed allevamento di bestiame.
         Questa transizione, indicata da G. Childe come rivoluzione neolitica, può essere di buon grado intesa per l’essere umano come la «... rivoluzione più importante che egli abbia mai compiuto nel corso dei tempi». Questa trasformazione investì l’uomo in ogni angolo dell’esistenza. In poche centinaia di anni, un intervallo evoluzionisticamente del tutto inconsistente, la biologia, sensibilità, socialità, spiritualità ed autocoscienza dell’uomo, cagliate per millenni nelle ere paleolitiche, dovettero di colpo adattarsi alle inedite condizioni esistenziali, ai nuovi rapporti sociali ed ai contesti culturali derivanti da tale trasformazione. Qualcosa di nuovo irrompe nell’universo umano: tutta una serie di modalità e situazioni esistenziali iniziano ad intaccare profondamente la sfera individuale e sociale dell’uomo, il sua stesso immagine di creatura cosciente. 
         La rivoluzione neolitica, l’invenzione dell’agricoltura, sono al centro dell’attenzione di storici, antropologi, economisti e filosofi, in particolare per quanto concerne le modifiche intervenute nella struttura socio culturale parallelamente all’affermazione di tali pratiche.
         L’interesse, da noi condiviso, è motivato dal fatto che tale cambiamento risultò contemporaneo all’emersione di un atteggiamento individuale e collettivo radicalmente diverso da quello delle preesistenti società di cacciatori-raccoglitori preistorici. Agricoltura ed allevamento derivano da una maggiore valutazione economica delle pratiche di raccolta di comunità di cacciatori raccoglitori, ed ad un più ampio sfruttamento delle risorse vegetali. Le prime società agro pastorali del Neolitico antico erano ubicate nella parte più orientale del Mediterraneo, dall’estremità sud orientale dell’attuale Turchia sino ai territori abbracciati dai due grandi fiumi mesopotamici: il Tigri e l’Eufrate. Non appare ora quanto meno sconcertante la stretta concordanza tra questo dato ed i riferimenti geografici di Gn 2,10? Forse ci siamo!
         Ebbene: in questa trasformazione quali aspetti della precedente modalità di vita poterono essere salvaguardati e quanto, o cosa dovette subentrare per sorreggere i nuovi sistemi? Significativo potrebbe rivelarsi al riguardo lo studio delle primitive forme di allevamento e agricoltura risalenti all’inizio del Neolitico o al Mesolitico. Interessanti reperti di questo stadio sono rappresentati da alcuni insediamenti del Neolitico situati tra la Siria e la Turchia sud orientale: i siti di Çatal Hüyük, di Tell Murey-bet, costituiscono testimonianze notevoli di culture di questo periodo (dai 7.700 al 5.600 a.C.).
         Tali siti esibiscono un livello tecnologico ed economico ben più differenziato rispetto alle società dei cacciatori raccoglitori. Evidentemente l’uomo iniziò a sperimentare condizioni di vita molto più vicine a quelle delle successive polis neolitiche. Così scrive E. Fromm, riportando anche J. Mellaart, autore di interessanti studi sugli scavi, da lui diretti, di Çatal Hüyük: «Nonostante questo livello di civiltà, sembra che nelle strutture sociali mancassero certi elementi caratteristici di stadi successivi d’evoluzione.
   
      In effetti pare che, secondo Mellaart, vi fossero poco rilevanti distinzioni di classe fra ricco e povero. In genere, prosegue Mellaart, i dislivelli sociali si rispecchiano nelle dimensioni degli edifici, nell’equipaggiamento, nei doni funerari, mentre a Çatal Hüyük «non sono mai evidenti».
   
      Infatti, osservando i piani della sezione della città portata alla luce, si scopre che la differenza fra le dimensioni degli edifici è molto trascurabile se paragonata alle costruzioni delle successive società urbane. Childe rileva che nei primi villaggi del Neolitico non esistono prove inequivocabili dell’esistenza di una classe dirigente, e alla stessa conclusione giunge Mellaart per Çatal Hüyük.  
   
     Mentre a Çatal Hüyük il surplus prodotto con i nuovi metodi dell’agricoltura doveva essere tale da consentire la fabbricazione di oggetti di lusso e il commercio, i primi villaggi neolitici, meno evoluti, producevano soltanto un piccolo surplus, e quindi l’uguaglianza era persino superiore a quella di Çatal Hüyük...
   
     In queste circostanze economiche non esistevano semplicemente le condizioni per la differenziazione della società in diverse classi o per la formazione di una leadership permanente con la funzione di organizzare l’intera economia e di pretendere una ricompensa per le sue prestazioni... Due osservazioni sono particolarmente importanti dal punto di vista dell’aggressione: in tutti gli ottocento anni di vita di Çatal Hüyük portati alla luce dagli scavi, non ci sono prove di saccheggi o massacri.
   
     Una testimonianza ancor più impressionante dell’assenza di violenza è che, fra le diverse centinaia di scheletri dissotterrati, non se ne è trovato uno che portasse segni di morte violenta».Queste osservazioni indicano due aspetti d’indubbio interesse. Il primo è che il mero passaggio tecnico da una modalità di vita all’altra non è, di per sé, causa prima della metamorfosi socio culturale di cui siamo alla ricerca. Il secondo, che le condizioni necessarie a salvaguardare personalità di base rivolte alla cooperazione, ad una scarsa aggressività, società impostate su principi di uguaglianza, non violenza e solidarietà non costituiscono aspetti esclusivi di una data realtà socio economica, nella fattispecie le società di cacciatori raccoglitori, bensì espressioni proprie anche di culture più differenziate e di maggiore contenuto tecnologico, economico ed organizzativo. Ciò sconfessa la presunta congenita naturalezza dell’affermazione di prassi impostate su individualismo, competizione, confronto aggressivo, sia interpersonale che inter comunitario. Si può constatare, al contrario, come nelle culture primitive siano diffuso un vero e proprio ostracismo collettivo teso ad emarginare manifestazioni di questo tipo.
         Ma l’uomo inizia comunque ad esprimere un nuovo tipo di rapporto interpersonale, di valori e rapporti sociali che non scaturiscono da contingenti situazioni storiche ed ambientali, che si concretizzano nello sfruttamento e nella manipolazione, fino allora inaudita, del complesso socio economico. Si assiste ad una trasformazione radicale dei principi etici, filosofici e sociali dell’essere umano, della sua concezione della realtà esterna, dell’altro e di se stesso, che va storicamente a concretizzarsi nei primi ordinamenti statali classisti dell’era neolitica.È dunque quest’ultimo ambito, e solo in questo, che si cela il germe di questa frattura filosofica. Scrive in proposito E. Fromm: «Una delle caratteristiche più importanti della nuova società urbana è il principio della norma patriarcale che la governa, cui è intrinseco l’elemento di controllo: controllo della natura, degli schiavi, di donne e bambini... Per realizzare gli obiettivi della nuova società, tutto, la natura e l’uomo, dovevano essere controllati, eser­citare o temere il potere. Per diventare controllabili, gli uomini dovettero imparare a ubbidire e a sottomettersi e, per sottomettersi, dovettero credere nel potere superiore fisico e/o magico dei loro capi.  
            Mentre nel villaggio neolitico, come fra i cacciatori primitivi, i capi guidavano e consigliavano la gente senza sfruttarla, e mentre la loro leadership era accettata volontariamente o, per usare un altro termine mentre l’autorità preistorica era ‘razionale’, basata cioè sulla competenza, l’autorità del nuovo sistema patriarcale era basata sulla forza, sul potere, sullo sfruttamento, mediata dal meccanismo psichico della paura, del ‘terrore-rispetto’, della sottomissione: era un’autorità irrazionale
».Da dove proviene allora la scheggia impazzita che accese questo fuoco nel genere umano?
          Finora ciò ha rappresentato un formidabile interrogativo per gli studiosi che si sono accinti ad interpretare tale fatto. Pertinenti ci sembrano in tal senso alcune affermazioni di Pierre Clastres: «Far dipendere l’apparizione della macchina statale (“… quell’apparizione misteriosa, irreversibile, mortale per le società primitive a cui diamo il nome di Stato…”, così come lo stesso autore definisce nello stesso lavoro questa nuova modalità socio culturale n.d.a.) dalla trasformazione della struttura sociale non fa che rinviare il problema della sua apparizione, ché bisogna allora domandarsi perché si produce nell’ambito di una società primitiva, cioè di una società non divisa, la nuova ripartizione degli uomini in dominanti e dominati.
           Qual’è il motore di questa fondamentale trasformazione che culminerebbe nella costituzione dello Stato?Il suo emergere sanzionerebbe la legittimità di una proprietà privata apparsa precedentemente, lo Stato sarebbe insomma il rappresentante e il protettore dei proprietari. Benissimo. Ma perché vi sarebbe apparizione della proprietà privata in un tipo di società che ignora, poiché la rifiuta, la proprietà stessa? Perché alcuni vorrebbero proclamare un bel giorno: questo è mio, e in che modo gli altri lascerebbero così stabilirsi il germe di ciò che la società primitiva ignora: l’autorità, l’oppressione, lo Stato? Ciò che sappiamo delle società primitive non permette più di ricercare l’origine del politico al livello economico. Non su questo terreno cresce l’albero genealogico dello Stato.
   
         Non vi è nulla, nel funzionamento economico di una società primitiva, di una società senza Stato, che permetta l’introduzione della differenza fra più ricchi e più poveri, perché nessuno prova colà il desiderio assurdo di fare, di possedere, di apparire più del suo vicino.
   
         La capacità, uguale per tutti, di soddisfare i bisogni materiali, e lo scambio dei beni e dei servizi, che impedisce costantemente l’accumulazione privata dei beni, rendono semplicemente impossibile il nascere di un tale desiderio, desiderio di possesso che è, di fatto, desiderio di potere.
            La società primitiva, prima società d’abbondanza, non lascia alcun posto al desiderio di sovrabbondanza. Le società primitive sono società senza Stato perché lo Stato vi è impossibile.
   
         Eppure tutti i popoli civilizzati sono stati, dapprima, selvaggi.
   
         Che cosa ha fatto sì che lo Stato cessasse di essere impossibile? Perché i popoli cessarono di essere selvaggi? Quale formidabile avvenimento, quale rivoluzione lasciarono sorgere la figura del Despota, di colui che comanda e coloro che obbediscono?».Questo brano rappresenta un coacervo singolare degli interrogativi che vertono su tale evento epocale della nostra storia e delle contraddizioni che l’odierna antropologia ha posto in evidenza a proposito dell’origine delle società statali classiste, dello Stato inteso come strumento oppressivo nel contrasto storico e politico delle classi sociali. Quel che emerge è l’impossibilità di comprendere l’origine di tutto ciò come sola evoluzione di situazioni socio economiche precedenti, come manifestazione di una congenita predisposizione dell’uomo ad una dicotomia dominio-sottomissione, destinata inevitabilmente a ribadirsi nel corso della storia recente. La moderna antropologia culturale sottolinea come l’evoluzione psico culturale dell’uomo sia fondamentalmente avvenuta in modelli socio culturali, discutibilmente indicati come selvaggi, dai quali è da attendere una efficace resistenza nei confronti di tutte quelle trasformazioni che consentiranno l’emersione dello Stato. In altre parole: siamo psichicamente ed etologicamente cacciatori-raccoglitori tribali.
         L’origine di modelli classisti fondati sul contrasto tra dominanti e dominati, sullo sfruttamento dell’individuo, l’affermazione a livello sociale del germe da cui tutto questo poi procedette, dovette dunque combattere contro la resistenza organica dell’uomo delle anteriori società egalitarie.
         Da questa fondamentale constatazione muovono i tentativi di invocare il verificarsi di situazioni contingenti di ordine economico, demografico, alimentare e così via per spiegare l’origine delle culture moderne. Ma nessuno di questi elementi è in grado di indurre forzature ed urgenze tali da piegare questa atavica resistenza.Se tutto dovesse essere ricercato nel campo delle disponibilità alimentari, come spiegare l’esistenza fino ai nostri giorni, in ecosistemi decisamente poveri, di società egalitarie come quella dei !Kung San del deserto del Kalahari? Come spiegare la loro riluttanza ad abbandonare il loro stile di vita pur se ridotti in lande aride e sperdute dalla colonizzazione bianca? Come capire come l’Homo sapiens abbia superato glaciazioni e sconvolgenti trasformazioni della flora e della fauna di interi continenti restando ancorato, per migliaia di anni e senza eccezione ad una modalità selvaggia indifferentemente fondata su uguaglianza e cooperazione reciproca?
         La risposta è che non bisogna rivolgersi all’ambiente, all’esterno dell’uomo, ma nell’uomo, ai suoi ideali e sentimenti, alla sua coscienza interiore, come ammoniva la scritta sull’oracolo di Delfo: «Conosci te stesso». C’è da rivolgersi dunque là dove l’essere umano può intaccare con il suo intelletto ed i suoi sentimenti l’ambito socio-culturale; là dove, di riflesso, questo ambito può sorreggere e modellare e condizionare la socialità, la personalità psichica dell’individuo. E solo nella sfera socio culturale e psicologica possiamo rintracciare l’evento decisivo, la causa prima della trasformazione da cui si originarono le società statali autoritaristiche, civili, a cui imputare la dissoluzione dell’egalitaria società selvaggia; evento cui anche noi cacciatori raccoglitori tribali del ventesimo secolo siamo, evolutivamente parlando, fresche vittime.Ebbene, la proposta è che questa caduta sia rappresentata dall’emersione di forme teoetotomistiche (A) che trasformarono irrimediabilmente la collocazione ed il destino dell’essere umano sia nell’ambito della sfera sociale che nel contesto in cui egli si pone al cospetto della divinità. Le società classiste statali si andarono originando e diffondendo dalla mezzaluna fertile del Medio Oriente, a partire dai 7 ¸ 6.000 anni a.C., sostituendosi alle anteriori società pre classiste grazie ad una maggiore potenza economico militare, all’intrinseca aggressività espansionistica di cui erano pervase. Esse erano tutte teocrazie, basate su divinità teoetotomistiche onniveggenti delle azioni umane, crude garanti della legge. Questa risulterebbe la causa prima della degenerazione delle fondamentali concezioni teologiche dell’uomo, il motivo della penosa involuzione psichica da cui deriverà, con una vera e propria mutazione culturale, l’Homo s. s. teoetotomisticus, spazzando via l’Homo s. s. religiosus.
         Nella struttura teoetotomistica si cela il germe filosofico, l’essenza stessa della contrapposizione dominante-dominato, la cristallizzazione teologica della spoliazione etica di una data entità a favore di un’altra, l’affermazione del principio di una sovranità morale di un ente su di un altro. In essa l’individuo viene recluso poi in una condizione esistenziale dalla quale si originano dinamiche psichiche che condurranno a quell’uomo nuovo, civilizzato che subentra al selvaggio delle originarie società preclassiste nella storia del genere umano.
         Ma come avvenne allora tale trasformazione? In che modo fu possibile giungere a questo inedito modello a partire dalle originarie strutture religiose? Quali poderose spinte modificarono la figura delle preesistenti divinità creatrici in divinità morali? E perché tale trasformazione risulta contemporanea allo sviluppo dell’agricoltura?
         Nelle società teoetotomistiche l’agricoltura assunse un ruolo ed una rilevanza singolari nel contesto di un ordinamento centralizzato e classista, permettendo il supporto economico di una complessa struttura sociale, il mantenimento delle classi dominanti, delle classi guerriere, del clero delle prime società statali. Un livello minimo di produzione di surplus, quale quello ottenibile da certe forme di applicazione delle pratiche agricole, risulta infatti una base socio economica essenziale per l’instaurazione di tali società. Ma non ne rappresenta la causa prima!Così conclude infatti Jacques Cauvin nel suo libro «Nascita delle divinità e nascita dell’agricoltura. La rivoluzione dei simboli del neolitico»: «... noi stessi siamo rimasti sorpresi per l’omologia constatata tra il processo indicato dalle ricerche recenti a proposito degli inizi della produzione di sussistenza, dove è un avvenimento di carattere psicoculturale quello che sembra aver anticipato un nuovo tipo di sfruttamento dell’ambiente,... ».Dunque, nel tentativo d’individuare l’evento riconducibile alla caduta biblica siamo risaliti al 7 ¸ 6.000 a.C.; in questo periodo cominciarono a diffondersi, a partire dalla mezzaluna fertile medio orientale, società in cui la modalità agricolo pastorale assunse un rilievo progressivamente più apprezzabile. In questi contesti il potere politico sulla comunità, decisamente esigua nelle società di cacciatori raccoglitori di cibo, subì un’indubbia amplificazione, vista la necessità di gestire situazioni economico organizzative più complesse. Di conseguenza, l’aspetto organizzativo decisionale assume in tali società un ruolo più importante, in quanto in esse si assiste ad uno stiramento verticale del tessuto sociale, data la maggior consistenza del gruppo, la necessità di una più estesa gestione del territorio e nuove e più complesse tematiche, quali una più complessa ripartizione dei surplus etc. In tali società si realizzerebbero dunque i presupposti del processo di stratificazione sociale che, anche a detta delle ortodosse teorie sull’origine dello stato moderno, porterà alla disgregazione della società primitiva ed allo sviluppo, ovvio ed inevitabile, quale continuazione evolutiva, delle civiltà moderne e la divisione classista.
         Eppure niente è ovvio ed inevitabile in questo specifico caso. Le attuali ricerche etnologiche ci fanno conoscere elementi delle società primitive che sembrano invalidare irrimediabilmente tali riduttive interpretazioni. Nella prassi, il soggetto medio di queste società si discosta notevolmente dalla figura di H. aeconomicus sinora ovviamente presa in considerazione in queste analisi.
         Quel che, in un inconscio eccesso di antropomorfismo occidentale, studiosi anche marxisti definiscono come stereotipo dell’essere umano, (un individuo attivo, razionale, attratto dallo scambio, dal controllo, dall’ordine, dalla gerarchia, dal desiderio di massimizzare l’uso di risorse e attività), non ha alcun riscontro negli appunti di viaggio degli antropologi che hanno compiuto studi non faziosi delle società primitive. La trasformazione della società selvaggia in società statale è qualcosa molto più profondo della pura riorganizzazione socio economica di una realtà preesistente, e questo, il che è fondamentale, non è l’inevitabile reazione dell’uomo a contingenti situazioni esterne, frutto di un’innata e congenita predisposizione interiore. Tale evento si rivela, piuttosto, una trasformazione che sconvolge il passato ordinamento sociale e culturale e che può essere compreso solo ricorrendo a fattori capaci d’intaccare la sfera percettiva ed esistenziale più profonda dell’individuo: la sua psiche, i contenuti dei suoi ideali, della sua stessa immagine di sé e del creato.Con l’avvento delle pratiche agricole e pastorali l’attività umana, non più inerente a sole fasi di consumo terminale dei prodotti naturali, condusse sempre più alla loro produzione. L’uomo iniziò a profondere un impegno cronologicamente e concettualmente disgiunto dalla fase terminale di consumo come, per esempio, la semina, la cura delle piantine, la raccolta e conservazione delle eccedenze, l’edificazione di depositi etc. Ebbene, a cosa poteva condurre questa nuova realtà nel campo delle sue concezioni cosmologico metafisiche? I nessi ci sono e sono profondi.
         Nella misura in cui l’individuo entrò in merito alla produzione attiva, dovette confrontarsi con una nuova nozione: quella di rendimento, di computo tra attività e risorse profuse nel processo produttivo e guadano, profitto, il tutto come alternativa della già sperimentata caccia e raccolta. Ma in questa diversa prospettiva la natura non donava più gratuitamente, bensì rendeva solo in proporzione a quanto l’individuo dava in termini d’impegno e risorse.
         Per concludere, il più ampio significato rivestito dall’autorità sociale e le nuove tematiche connesse alle pratiche agro pastorali, unitamente trasposti nel campo filosofico, rappresentano un crogiolo in grado di «distogliere le divinità creatrici dal torpore della loro atavica oziosità ed indifferenza». L’abbondanza, la vita, non fluiva più esclusivamente da un atteggiamento prodigo e generoso della natura, ma anche e soprattutto dal concorso sempre più decisivo dei fattori socio economici. La ripercussione metafisica di questo inedito stato di cose fu una distinta cognizione della realtà che indusse una rielaborazione dei sistemi teologici, dove progressivamente si riversarono esigenze inedite, che calamitavano l’esistenza quotidiana. Di conseguenza anche i concetti di divinità, di creato e di uomo vennero investiti di significati inediti e collocati in distinte concezioni cosmologico metafisiche.
         Nuovi orizzonti si aprirono, nuovi scenari divennero accessibili al pensiero umano. Nei precedenti sistemi religiosi il sacro si proponeva costantemente all’uomo nella coerenza di una concezione del trascendente incentrata solo sulla valenza creativa della divinità. Solo con l’affermarsi dei contesti metafisici collegati alle nuove esperienze socio economiche si dispiegò una differenziazione dell’interpretazione del sacro capace di una radicale trasformazione del rapporto uomo-Dio.Contrariamente a quanto si verificava nelle precedenti società di cacciatori raccoglitori o nelle originarie comunità proto agricole, entrambe accomunate da una prassi selvaggia di sfruttamento delle risorse naturali, nelle comunità ad agricoltura intensificata del primo Neolitico si andarono realizzando due nuove importanti condizioni. La prima è data da una percezione nuova della natura, esprimibile in termini di scambio, rendimento, di «dare per avere». Questa nuova realtà socio economica dava enfasi ad attività economiche totalmente distinte, nei contenuti, da quelle delle comunità di cacciatori e raccoglitori, caratterizzate da un uso pressoché terminale e non intensivo di prodotti naturalmente disponibili.
         Ma realizzare questo obiettivo non era né semplice né indolore. Le più importanti conseguenze dell’adozione di un agricoltura intensiva sono la possibilità di sostenere una maggior pressione demografica e l’accumulo di forti eccedenze alimentari in termini quantitativi più rilevanti rispetto alla caccia e raccolta. Queste condizioni possono allora sorreggere una struttura socio produttiva a forte specializzazione economica che, stimolando contemporaneamente processi di centralizzazione e stratificazione sociale, contribuisce allo sviluppo di una solida attività produttiva e commerciale. Ma la necessità di contare su un più ampio volume di prodotti, contrariamente a quanto si può pensare, va ad esasperare la dipendenza della comunità da una maggior quantità di alee naturali, cosicché con tali attività si stimola una forte attesa individuale e collettiva, che inevitabilmente drammatizza il senso quotidiano dell’esistenza.
         L’uomo, profondamente coinvolto dal punto di vista emotivo ed economico dal molteplice, imprevedibile incedere di eventi naturali, spesso tale da vanificare gli sforzi e le risorse profuse, poté allora essere indotto a decodificare certe situazioni come manifestazioni di un’alterna disposizione personale della natura, alias la divinità, nei confronti dell’agire umano.
         L’interiorizzazione del principio del dare per avere basilare nel nuovo tessuto comunitario, la sua trasposizione in un sistema di credenze sovrannaturali e nel rapporto tra il divino e l’uomo, fu la base per ipotizzare relazioni e scambi tramite le quali quest’ultimo, in una deformazione antropomorfica, coinvolgerà la divinità. Queste relazioni ed aspettative riversarono sull’individuo un’angoscia esistenziale dalla quale, anche secondo le ortodosse interpretazioni del sacro, andrebbe a scaturire l’universale valenza onnisciente e morale della divinità, nonché l’atteggiamento servile dell’uomo nei suoi confronti.Il fatto che alla divinità venga attribuita la volontà di manifestare un interesse diretto verso l’operato umano, e l’interpretare gli eventi naturali quali presunte manifestazioni di una disposizione particolare della stessa nei confronti dell’individuo e della comunità, comporta inevitabilmente uno sconvolgimento sia del modello in cui si realizza la relazione uomo-Dio che del contesto in cui l’individuo attua le proprie scelte. Ciò pone un netto distinguo nei confronti delle concezioni precedenti. In quelle la divinità contemplava distaccata le vicende del creato; ora entra in scena nel divenire degli eventi naturali, in particolar modo nella sfera etica di una creatura: l’uomo.
         C’è ovviamente un baratro incolmabile tra queste concezioni. Il coinvolgimento diretto della divinità nelle dinamiche naturali, la sua presenza attiva, personale e puntuale, rappresenta una degenerazione dell’ideale monoteistico religioso. Non possiamo pensare ad un’evoluzione, quanto ad una trasformazione totale, una mutazione radicale: una vera e propria invenzione culturale.
         L’ipotizzare questi interventi divini implica che nell’ente creato possano aversi eventi rispetto ai quali la divinità esprime un’avversione profonda. Ciò vuol dire che le dinamiche naturali sembrerebbero poter sfociare d’un tratto in situazioni indesiderate, respinte alla divinità; ma questo è ammettere che il creato, sfuggendo agli originali propositi divini, possa albergare eventi tali da vanificare i propositi divini, da richiedere addirittura interventi correttori, volti a ricondurre o salvaguardare il progetto iniziale: una situazione clamorosamente contraddittoria dal punto di vista teologico. Perché lasciare che l’intero creato evolva spontaneamente ad un dato stadio della realtà per intervenire a posteriori? Cosa succede, il creato è in grado di sfuggire dalle mani del creatore, di deviare dalle sue volontà? Il potere e l’onnipotenza divina vacillano?
         È innegabile che tali interpretazioni ingenerino un cul de sac filosofico e teologico da cui è impossibile uscire, da cui si può rimediare, goffamente, solo con l’escamotage di una inedita rottura filosofica: l’abbandono dell’ideale monoteistico a favore di una concezione dualistica o politeistica. È chiaro ora come questa transizione profonda, vera e propria contraddizione e baratro metafisico, non possa essere intesa in alcun modo quale inevitabile evoluzione formale delle credenze religiose! Essa è piuttosto un’infausta trasformazione, peraltro filosoficamente carente, dovuta a tentativi di risolvere intellettualmente i nuovi spunti cosmologici e filosofici, le contraddizioni delle presunte manifestazioni mondane della divinità. Ma la formulazione di queste ipotesi non deriva dalla presa di coscienza di un’inedita cosmologia metafisica, quanto da una degenere distruzione di un preesistente modello filosofico teologico.
         Inizialmente si può anche pensare ad un riconoscimento della magnificenza e della potenza della divinità, della sua generosità nei confronti dell’individuo, immaginando una bonaria disposizione della divinità nei confronti dell’individuo comunque estranea da ogni più larvata finalità o valenza autoritaristico, e non implicando qualsivoglia accenno di una sudditanza etica dell’uomo – si pensi alle prodighe divinità femminili paleolitiche. Eppure, una volta acquisiti nel contesto culturale, tali spunti possono rappresentare il germe di trasformazioni filosofiche condotte principalmente in termini di estensione quantitativa e qualitativa che, confluendo anche nella sfera etica dell’individuo, permise un’intrusione man mano più sensibile del sacro nella sfera etico sociale della comunità. Ciò avvenne nelle società proto agricole od agricole del primo Neolitico, che precedettero le prime aggregazioni proto statali e statali; in esse iniziò a plasmarsi l’atteggiamento civile dell’uomo che, segnando una netta cesura con un passato selvaggio, condurrà all’origine delle moderne civiltà centralizzate ed autoritaristiche. Tale cornice rappresentò probabilmente il crogiolo in cui avvenne questa radicale innovazione. Ma l’aspetto fondamentale di questa rivoluzione era ancora di la da venire: fu infatti la riflessione filosofica e teologica postuma ad debordare la divinità verso la realtà naturale in contenuti teoetotomistici. Solo quando fu definita una nuova, adeguata concezione teologico cosmologica, poté avvenire tale trasformazione.
         Le possibili cornici metafisiche sono ben distinte tra di loro, non presentano alcuna continuità. Si hanno concezioni monogenistico creative religiose oppure dualistico teoetotomistiche. Solo queste forme presentano la dovuta stabilità formale. Dovette aversi dunque una rottura netta, totale.La valenza di una divinità religiosa non può spingersi oltre il rappresentare la causa prima dell’intero creato; è qui che l’ideale monoteistico religioso raggiunge la sua apoteosi, la sua perfezione. La potenza, perfezione ed onniscienza di queste divinità si rispecchia nella perfezione ed armonia della natura, della totalità delle categorie del creato, delle sue leggi, ed ovviamente delle creature viventi, senza alcuna esclusione. In nessun caso tale ideale può albergare l’eventualità di intervento divino postumo a carico di realtà naturali precedentemente create. Il fatto che la divinità creatrice debba abbandonare i suoi lidi celesti da cui «... l’oziosità dell’essere supremo, quasi una presenza inattiva, è la condizione meglio connaturata... ad assicurare la permanenza delle cose create e la continuità degli effetti della creazione» secondo le parole dello studioso di storia delle religioni Raffaele Pettazzoni, assurge a clamorosa evidenza di una insanabile rottura di fondo, di una degenerazione inammissibile della figura della divinità e del senso della sua opera. E ciò può solo rappresentare la lucida constatazione che la presunta perfezione ed onnipotenza divina non sappia più riversarsi pienamente nel creato; ma questo vuol dire che qualcosa dell’originario progetto creativo possa essere sfuggito al suo Sommo Artefice, turbato da un evento che il creatore stesso non poté, o seppe contemplare!
         La realtà travalicherebbe la completa preveggenza creatrice della divinità, costretta ad intervenire ripetutamente per incanalare determinate categorie di eventi in alvei opportuni con goffi interventi, con il proprio concorso attivo. È ovvio come queste conclusioni mettano in discussione aspetti fondamentali dell’intero contesto in cui la divinità è collocata; da qui il senso di una profonda trasformazione metafisica.
         Uno strumento concettuale in grado di risolvere, seppur in modo infausto, questa incoerenza filosofica, consiste nella formulazione ex novo di una concezione ove il concorso di contrapposti principi divini darebbe origine all’universo fisico, all’intero creato: una concezione che però implica l’inevitabile abbandono del monoteismo. Solo postulando una visione della realtà che contempli l’esistenza di divinità reciprocamente contrapposte ed organizzate, si poteva disporre di uno scenario compatibile con le ipotesi relative ad un azione mondana e diretta del sovrannaturale. Solo nel contrasto tra distinti principi sovrannaturali disposti nello scenario di un epico antagonismo è possibile porre lo zoccolo filosofico capace di motivare poi l’onniscienza etica di una divinità morale, la sua intrusione nelle vicende terrene, nel corso degli eventi naturali. Solo in tale quadro è comprensibile l’opera puntigliosa della divinità del bene in opposizione allo spirito del male, della luce nei confronti delle tenebre.
         Ma la necessità di questi principi, la cristallizzazione di  uno scontro che così profondamente intacca le vicende terrene, risulta conferma inquietante dello scadimento del carattere divino per eccellenza della divinità: l’onnipotenza. Solo in difetto di questo carattere è possibile affermare come la divinità creatrice sia incapace di superare tale impasse in modo definitivo, e dar corso ad un ente creato comunque immune dalle sinistre influenze del suo antagonista! Questo costituì il prezzo filosofico dovuto all’ipotesi, divenuta d’un tratto esigenza, del coinvolgimento mondano, fine e circostanziato delle entità divine, del trascendente. E questa sarebbe dunque la dinamica sociologico filosofica con la quale sarebbero sorti nel corso della storia i sistemi dualistico teoetotomistici.
         Riepilogando, potremmo enucleare le più importanti fasi di tale processo come segue:

      1)       A seguito dell’affermazione di sistemi socio economici improntati su pratiche agricolo pastorali si assistette, all’incirca intorno all’8.000 a.C., nella mezzaluna fertile delle vallate dei fiumi Tigri ed Eufrate, ad un’inedita differenziazione socio culturale. In queste società si ebbe un progressivo processo di stratificazione sociale ed ispessimento del tessuto sociale.
2)       Le nuove realtà sociali costituirono una base potenziale di esperienze in grado di far iniziare a formulare un qualche coinvolgimento della divinità nell’ambito storico e sociale, magari quale mero riconoscimento rituale delle divinità quali benevole dispensatrici e protettrici delle varie comunità.
3)       Questi aspetti rappresentarono però gli elementi filosofici da cui prese spunto un processo di ristrutturazione teologica che dapprima approssimò la divinità all’ambito etico della società, con conseguente progressiva spoliazione etica dell’individuo. Successivamente condusse ad una trasformazione filosofica più estesa, da cui emersero i sistemi teoetotomistici (A) veri e propri, nei quali la divinità assunse il ruolo sociale e teologico di guida demiurga, ordinatrice, magari in contrapposizione altri principi sovrannaturali.

Questa nuova interpretazione forzò l’essere creatore ad assumere l’onere di un impegno personale, ad abbandonare i lidi della perfetta indifferenza successiva al suo gesto creativo per rivestire il ruolo sovrano, autoritaristico e censorio nei confronti dell’uomo, magari al fine di fronteggiare l’immane lotta cosmica contro opposti principi metafisici.  E così l’uomo, dall’essere felice, somma e libera creatura del disegno divino, si ritrovò nelle vesti di suddito impaurito del sovrano divino, del despota, squassato in una lotta senza tregua tra potenze a lui incommensurabili. Un perfetto prototipo per le società classiste, autoritaristico repressive che da lì in poi  – purtroppo – si diffusero sulla terra. E con questo abbiamo concluso. Come si vede è possibile giungere a nuove e comprovabili interpretazioni del Genesi. Interpretazioni niente affatto viziate da tutti i problemi che sono sinora sorti nell’interpretazione del Genesi e che permettono una verifica concreta. La nostra concezione della religiosità permette dunque di giungere anche a questo risultato.
          Dunque: I promessi sposi o 2001: Odissea dallo spazio?
          Usava dire Sherlock Holmes al fido dottor Watson: «Elementare Watson: più indizi costituiscono una prova». Non è finita. E ce n’è anche per il Nuovo Testamento. Ma questa è un’altra storia: successiva.

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